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Spacciatori internazionali e trafficanti d’arte, armi stampate in 3D, terroristi neonazisti e miliziani curdi, tour di propaganda nel Donetsk. Nell’ultimo decennio, Jake Hanrahan – giornalista e fondatore di Popular Front – ha vissuto tutto questo sulla sua pelle, inoltrandosi nel sottobosco della contemporaneità e parlando con le figure che lo popolano.

Quello che segue è un estratto del suo libro, Gargoyle, prima uscita di Iconografie del XXI Secolo: la nuova collana di NERO dedicata alla geopolitica e all’attualità internazionale, in collaborazione con Iconografie. Per averlo in preorder clicca qui.

***

L’odore di crema antidolorifica Deep Heat riempiva l’aria nella stanza della televisione del carcere di Adana, nel Sud della Turchia. Accanto a me un rifugiato afghano la spalmava sul braccio di un ceceno. Il ceceno, un miliziano dell’ISIS catturato sul confine con la Siria, aveva tre cicatrici a forma di buchi di proiettili e il segno di un’operazione chirurgica sulla pelle. Seduti a sudare in questa piccola stanza c’erano rifugiati e combattenti provenienti da Camerun, Iran, Siria, Palestina e Afghanistan.

Ci scambiavamo sigarette e bevevamo tè mentre la tv passava Turchia-Lituania. I rifugiati fischiavano e gridavano ogni volta che la Turchia tirava in porta. Nessuno di loro voleva vedere una vittoria turca. Anche io tifavo Lituania. Non ero in quel carcere come osservatore, ma come prigioniero.

Ero lì in attesa che svolgessero le pratiche per il mio rimpatrio nel Regno Unito, insieme al mio amico e collega Phil Pendlebury. Avevamo passato gli ultimi otto giorni in squallide celle d’isolamento e in due infernali carceri di massima sicurezza di Tipo F. Tutto ciò in seguito al nostro arresto a Diyarbakir, nel Sudest della Turchia.

Da luglio, nel Sudest della Turchia, un focolaio di violenza separatista tra l’illegale Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e lo Stato turco era andato fuori controllo. Oltre cento poliziotti e soldati turchi erano stati uccisi dal PKK dall’inizio dei combattimenti, e la Turchia aveva iniziato a bombardare le basi del PKK, affermando di aver ucciso migliaia di miliziani (numeri probabilmente esagerati). 

Phil, io e il nostro collega Mohammed Rasool eravamo andati in Turchia per seguire il conflitto. Con la situazione politica tesa e lo spargimento di sangue che si aggravava, i giornalisti erano sempre meno i benvenuti nel paese. L’avevamo scoperto la notte del nostro arresto, quando eravamo stati accusati, in modo bizzarro, di «aiutare lo Stato Islamico e complottare per far saltare in aria una stazione della polizia». Le accuse, completamente inventate dalla polizia turca, sono cambiate più volte nel corso delle indagini. Non ci è mai stata mostrata alcuna prova a loro sostegno. Erano accuse ridicole: lo Stato turco voleva silenziare e screditare il nostro lavoro giornalistico. Stavamo indagando sui loro crimini di guerra e sul disprezzo mostrato per la sicurezza dei civili curdi. Cose che lo Stato turco non voleva che si sapessero.

La cosa peggiore, però, è che il nostro amico Rasool è ancora dietro le sbarre in una prigione turca.

Phil, Rasool e io eravamo già amici prima di tutto questo, ma dopo aver passato insieme otto giorni difficili nel sistema carcerario turco abbiamo legato profondamente. Siamo stati costantemente soggetti alle angherie di poliziotti nazionalisti turchi incazzati (uno dei quali aveva minacciato di spararci in faccia con la sua pistola carica nel retro di un auto); siamo rimasti ammanettati per sette ore nel retro di un veicolo militare, senza acqua e con un caldo soffocante; abbiamo dormito su materassi luridi e pavimenti di cemento. Nonostante tutto questo, siamo riusciti a sopravvivere facendoci forza l’un l’altro. Quindi quando una guardia carceraria ha detto a me e Phil che eravamo liberi, dover lasciarci dietro Rasool è stato straziante.

Lo abbiamo abbracciato e gli abbiamo promesso che avremmo lottato per lui da fuori. Era pallido – completamente scioccato. Ha annuito e ha detto solo «tiratemi fuori di qui, ragazzi». Nel giro di trenta secondi siamo stati scortati fuori dalla cella.

In quanto bianchi, occidentali e con passaporti britannici, sia io che Phil siamo stati rilasciati presto dalla prigione di Tipo F. Invece Rasool, un curdo iracheno, non aveva un governo potente a battersi per lui dietro le quinte. Così Phil e io siamo stati portati nel centro di detenzione di Adana, dove per tre giorni abbiamo vissuto tra rifugiati, ex ribelli siriani e membri dello Stato Islamico catturati dalle forze turche.

Al nostro arrivo, non avevamo idea di quanto a lungo ci saremmo rimasti. Eravamo stati fuori dal carcere per forse trenta minuti prima di essere portati lì da due poliziotti silenziosi.

Gli altri prigionieri si erano fermati e ci avevano guardati mentre venivamo spinti attraverso i cancelli di ferro dell’ingresso del braccio. Eravamo due rottami. Le nostre camicie erano impregnate di sporco e io avevo perso sei chili. Ed eravamo di nuovo gli unici due occidentali in tutta la struttura, che ospitava circa cento persone. Nella prigione di Tipo F non eravamo in contatto con gli altri prigionieri, dato che si trattava di un carcere di massima sicurezza. Stavolta, invece, eravamo come tutti gli altri. «Ora siamo davvero fottuti» ho detto a Phil.Ci siamo fatti strada lungo il braccio, che consisteva in uno stretto corridoio di circa sei metri con sei stanze su entrambi i lati. Alla fine del corridoio c’era un bagno e una doccia comuni. Alla destra del bagno c’era la stanza della tv. Le condizioni qui non erano un granché, ma paragonato alle prigioni in cui eravamo appena stati era come stare all’Hotel Ritz.

Un grosso tizio iraniano sui cinquant’anni, con un pizzetto grigio e qualche dente rotto, ci saluta in un inglese stentato. «Ciao» dice sorridendo, «tu non preoccupare. Venire con me.»

L’iraniano ci spiega che gli altri «detenuti» erano per la maggior parte solo profughi sbattuti nel centro di detenzione e, in teoria, in attesa di rimpatrio.

Secondo l’UNHCR, in Turchia vivono 1,7 milioni di rifugiati, più che in ogni altro paese del mondo. Anche le persone nel centro di detenzione di Adana erano comprese in quella statistica. La maggior parte era lì da mesi.

«Tutto ok, questo no carcere» aggiunge l’iraniano, che era detenuto lì da quarantuno giorni. C’erano sbarre alle finestre e lucchetti alle porte. Sembrava proprio una prigione – una prigione per rifugiati.

Abbiamo capito che presto o tardi saremmo stati rimpatriati quando ci siamo visti su al-Jazeera nella sala tv. Eravamo seduti insieme a un rifugiato afghano ventiduenne di nome Ali. Era scoppiato a ridere. A quel punto ogni nostra paura di essere linciati nelle docce era quasi sparita. La gente ci aveva accolto. Ci avevano dato bustine di caffè solubile, che custodivamo come oro liquido dopo una settimana di dieta carceraria a pane e acqua. Ali ci aveva aiutati a sistemarci. Indossava sempre un giubbotto e seguiva uno stretto regime di allenamento composto di flessioni e piegamenti ogni mattina dopo la preghiera. La gente lo chiamava chiedendogli di risolvere piccole controversie o di fare i piatti all’ora di cena. Ali ci aveva sistemato un letto a castello nella sua stanza. Dividevamo la cella con due ragazzi sulla ventina: Heli dalla Palestina e Super dall’Afghanistan. Anche l’iraniano più anziano era con noi.

Heli ci aveva colpito subito. Sorrideva quasi sempre. Il suo corpo era disseminato di vecchie ferite, la maggior parte delle quali era il risultato di un’esplosione da cui era stato investito a Gaza l’estate precedente, in cui erano morti sua madre, suo padre e sei delle sue sorelle. Le cicatrici che partivano dai suoi polsi e risalivano lungo le braccia erano diverse. Si era tagliato per disperazione.

«Ho cominciato a tagliarmi per ricevere servizio» disse, intendendo qualsiasi forma di attenzione da parte dei secondini. L’unico modo per averla era sbattere il lucchetto del cancello di ferro finché non arrivava qualcuno, cosa che spesso richiedeva un bel po’ di tempo.

Dopo sei mesi nel centro di detenzione, Heli era particolarmente angosciato perché non aveva avuto più notizie di sua moglie incinta e della loro giovane figlia. «Ho chiamato, ma la telefonata non va. Ora le guardie non mi fanno più telefonare.»

Nonostante il suo sorriso costante, Heli aveva dentro di sé una profonda tristezza. Quella sera, mentre guardavamo il tramonto, aveva indicato fuori dalla finestra, infilando le mani tra le sbarre e mimando il gesto di un aereo che decolla. «Presto voi tornerete in Inghilterra. Io, sono qui da così tanto tempo. Me ne devo andare, ma non c’è scampo da Adana, non c’è scampo.» Poi ha aperto un pacchetto di patatine e ha versato un bicchiere di Pepsi da condividere, un atto di gentilezza che non avrei mai potuto ripagare. Siamo rimasti lì a bere Pepsi e mangiare patatine mentre il sole tramontava.

Quella notte Ali è corso dentro e fuori dalla nostra cella per ore. Ho chiesto a Super cosa stesse succedendo. «Ali ha trovato qualcuno che si tagliava i polsi in bagno» ha detto. «Non so, penso per depressione. È uno dei somali.»

Il giorno dopo a colazione il tizio che si era tagliato i polsi si era seduto vicino a me. Sembrava che la vita gli stesse uscendo dal corpo piano piano. Legata al polso sinistro aveva una striscia di lenzuolo intrisa di sangue, applicatagli da Ali. Non è mai stato portato in ospedale e le guardie non hanno mai saputo che si era tagliato. Aveva vent’anni ed era detenuto da quattro mesi. Atti disperati come il suo erano un evento normale all’interno del centro di detenzione.

Stavamo seduti per ore con i ragazzi, parlando tra noi in vari livelli di inglese stentato con successive traduzioni. Ci facevano domande sull’Occidente – sulle donne, di solito. Rispondevamo meglio che potevamo e chiedevamo loro dei loro viaggi, delle loro famiglie e delle loro vite prima di Adana. Eravamo diventati amici.

Durante la nostra ultima notte all’interno del centro di detenzione, Heli ci ha portato in una stanza in fondo al corridoio. Un gruppo di profughi siriani ci ha invitato a unirci a loro. Cantavano canzoni contro Assad, ballavano e ci versavano tazze di forte caffè solubile. Erano di buon umore, e dicevano tutti di essere ex combattenti dell’Esercito siriano libero di Aleppo. Phil e io saremmo partiti nel giro di poche ore. Il nostro volo di rimpatrio partiva alle tre del mattino. Abbiamo festeggiato con Heli e i siriani e il chiasso si sentiva in tutto il braccio. La gente faceva capolino per salutare e cantare con noi. Poi sono arrivati gli estremisti. «Sono mujahideen!» ha urlato un tizio grasso del Tagikistan che, come fanno di solito gli estremisti, era venuto a rovinarci il divertimento.

Era scoppiata una discussione tra i jihadisti – che l’iraniano e molti altri ci avevano detto essere combattenti dell’ISIS catturati sul confine siriano – e i ragazzi dell’Esercito siriano libero. I jihadisti non erano felici del fatto che gli altri stessero ridendo insieme ai kuffar (io e Phil). C’erano circa quindici estremisti islamici nel centro di detenzione, per la maggior parte ceceni. Almeno tre di loro erano feriti – uno aveva una ferita di proiettile ancora aperta sulla mano da cui usciva perennemente pus.

Ci avevano tollerato, alcuni si erano dimostrati persino amichevoli, ma chiaramente adesso era abbastanza. I ragazzi dell’Esercito siriano libero hanno risposto con rabbia. Uno di loro ha indicato tre dei tizi con cui stavamo bevendo caffè. «Commando, commando, commando» diceva mentre li indicava uno alla volta.

Il jihadista grasso del Tagikistan alla fine ha chiuso il becco e se ne è andato. Siamo tornati nella nostra stanza insieme a Heli. Ci ha rassicurato, facendo il gesto dello sgozzamento, che se quelli dell’ISIS fossero venuti a prenderci li avrebbe uccisi. Il che era in un certo qual modo rassicurante, specie dopo che il giorno prima avevamo visto Ali fare un coltello con un cucchiaino affilato e un accendino, che ora era nascosto da qualche parte nella nostra stanza. In seguito avremmo scoperto, molto tempo dopo essere stati rilasciati, che Super e Ali avevano fermato un piano per ammazzarci e decapitarci in bagno orchestrato da diversi jihadisti ceceni.

Intanto, nella cella, Heli era depresso. Era incazzato per gli estremisti e triste perché ce ne stavamo andando, così come Ali, che aveva dormito tutto il giorno e sembrava malinconico. «Tu sei nato in Inghilterra, quindi sei cristiano» ha detto Heli. In realtà sono agnostico ma ho annuito. «Io sono nato a Gaza, quindi sono musulmano, ma non c’è differenza tra noi.» Ha unito le mani. «Amici.» E si è toccato il petto all’altezza del cuore. «Se mi guardi vedi che sorrido sempre e sembro felice, ma dentro sono…» non è riuscito a finire la frase. Invece, ha solo abbassato la testa. «Non c’è scampo da Adana.»

Poche ore dopo le guardie sono venute a prendere me e Phil. Abbiamo salutato, siamo stati portati in aeroporto e rimpatriati. Essere liberi era bello, ma la gioia era offuscata dal fatto che avevamo lasciato Rasool in Turchia. Era ancora detenuto nel carcere di Tipo F mentre «l’indagine» continuava, apparentemente sospettato di «aiutare consapevolmente e volontariamente un gruppo criminale organizzato senza far parte della struttura gerarchica del gruppo», un’accusa utilizzata sempre più spesso dallo stato turco per prendere di mira e intimidire i giornalisti. Rasool era innocente ed è stato rilasciato dopo 131 giorni di carcere. È riuscito a lasciare la Turchia e ora vive al sicuro altrove.


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